Antica Torino e la rinascita del Vermouth

Pubblicato il 19 aprile 2017

Filippo Antonelli con la collaboratrice Paola Rogai e il socio Vittorio Zoppi

Il Vermouth è uno dei prodotti più antichi della liquoristica mondiale, infatti già in racconti palestinesi si parla di un vino reso più gradevole con l’aggiunta d’assenzio. Ma molti sostengono che il vero antenato del Vermouth fu inventato da Ippocrate, il grande medico greco nato nel 460 a.C., che usava aromatizzare del vino con ori d’arthemisia absinthium (assenzio in italiano, Wermut in tedesco), oltre ad altre erbe, spezie e miele per ottenere una bevanda atta a depurare il corpo, grazie alla sua azione antispastica intestinale. Ma le antiche cronache riportano che pure Plinio il Vecchio utilizzava il “vinum absinthium” come rimedio contro i disturbi di stomaco.

L’abitudine del resto appare molto diffusa non solo in Grecia, ma anche a Roma. L’uso d’aggiungere al vino degli infusi d’erbe continuò per tutto il Medioevo e divenne addirittura un fatto di costume quando, coi massicci arrivi di spezie dall’Oriente, cannella e noce moscata furono praticamente alla portata di tutti. Nel Cinquecento si diffuse l’uso di macerare nel vino varie spezie portate dalle Indie e dall’Africa, fra cui assenzio, timo, rosmarino, sedano, mirto, cannella, noce moscata, chiodi di garofano, vaniglia, pepe, mirra, zenzero, rendendo popolare in Italia, Francia e Germania questa gradevole bevanda leggermente alcolica, utile contro i di- sturbi digestivi. Naturalmente non si può dire che simili preparazioni avessero qualcosa in comune col Vermouth così come lo beviamo oggi, infatti il primo parente veramente prossimo è quello che i tedeschi cominciarono a preparare attorno al Seicento, mettendo in infusione nei vini renani alcune erbe e radici in cui predominava l’assenzio e che chiamarono Wermuthwein.

In seguito alla guerra di successione spagnola, iniziata nel 1701, che vide contrapporsi la Francia e l’Inghilterra, quest’ultima si trovò a dover superare i problemi derivanti dall’impossibilità di ricevere le normali forniture di vino francese. Per tal motivo nel 1703 tra l’Inghilterra e il Portogallo fu stipulato il trattato di Methuen, che prevedeva vari accordi di tipo politico, militare e commerciale con particolare riguardo all’importazione in Inghilterra di pregiati vini liquorosi portoghesi, a fronte dell’esportazione in Portogallo di pregiati tessuti inglesi. Molto di uso dai mercanti inglesi, che di fatto ne avevano assunto il monopolio commerciale, il vino liquoroso ebbe un gran successo in tutta Europa per il gradimento delle dame verso il gusto dolce. Questo nuovo scenario aprì le porte sia a prodotti già di usi su scala locale, come il Marsala, prodotto della Sicilia che aveva metodi di vinificazione e invecchiamento simili a quelli dei vini portoghesi, sia a nuovi esperimenti, come il Vermouth.

Ma il Vermouth vero e proprio nacque più tardi, esattamente nel 1786 a Torino in una liquoreria sotto i portici della centrale Piazza Castello, allora Piazza della Fiera: il proprietario di questa bottega era un certo signor Marendazzo, che nella storia non ebbe altro merito se non aver preso con sé un biellese di nome Antonio Benedetto Carpano come suo aiutante di bottega. Fu proprio quest’ultimo che poi passò alla storia come ”inventore” ufficiale del Vermouth, creando una propria ricetta. Carpano, appassionato di vini moscati, mise a punto una formula per esaltare gli aromi di questi vini dolci, basandosi sulle conoscenze derivanti dalla tradizione dei monaci delle sue terre d’origine.

Il vino moscato venne quindi addizionato di spezie ed erbe, creando una bevanda talmente apprezzata dai torinesi da rendere la liquoreria di Piazza Castello il locale più frequentato della città per oltre 140 anni. Il nome scelto per questa nuova bevanda fu Vermouth, adattamento francesizzato del termine tedesco Wermut, che indica la pianta di Artemisia (Assenzio) maggiore, pianta erbacea amara e molto odorosa. E non fu solo la gente comune ad apprezzare il Vermouth, che venne inviato persino al sovrano Vittorio Amedeo III, che rimase molto colpito dal suo gusto aromatico del tutto particolare. Tanto che da allora il Vermouth di Torino è un patrimonio collettivo dei piemontesi, che vede nella corte reale dei Savoia il primo gran promotore di un prodotto che, a partire dalla fine Settecento, generò una orente industria che fece del Piemonte “il regno del Vermouth”. Così nei primi del Novecento era l’aperitivo principe delle signore che s’incontravano negli eleganti gran caffè di Torino.

Nei suoi oltre 200 anni di storia la sua formulazione e il metodo produttivo sono rimasti sostanzialmente invariati e hanno attraversato, senza alcuna pausa produttiva, le varie crisi, dalle guerre al Proibizionismo fino alla fine degli anni Sessanta, quando le mutate abitudini alimentari e di consumo, unite a un’involuzione della qualità̀, ne determinarono quasi la scomparsa. Protagonista della rinascita internazionale dei Vermouth d’alta gamma e del rinnovato interesse dei grandi barman è una nuova schiera di seri “vermuttieri”, una vera e propria “aristocrazia” del Vermouth.

Tra questi si annovera da ora anche un noto produttore di vini in quel di Montefalco in Umbria, uno dei padri della storia enologica moderna del Sagrantino, che risponde al nome di Filippo Antonelli: “Probabilmente la colpa è del dna, infatti mia madre era una piemontese, precisamente una Carandini originaria del Canavese, per cui nelle mie vene scorre un buon 50% di sangue sabaudo… Lo zampino finale lo ha poi messo il mio brand ambassador Vittorio Zoppi, che ha vissuto molti anni negli States e attualmente, con base Genova, lavora per diversi importatori e distributori, al quale i mercati da tempo richiedono di selezionare piccole produzioni di Vermouth di nicchia. Così Vittorio ha iniziato a guardarsi un po’ intorno nel mondo dei Vermouth, assaggiando tutti quelli artigianali e alla fine si è reso conto che esistevano tanti marchi, ma poche manifatture, così ci è venuta l’idea di metterci in società per iniziare una nostra produzione in Piemonte”.

E da dove siete partiti... “Da tanti assaggi, discussioni, interviste, una lunga ricerca durata oltre due anni per metter a punto la nostra ricetta, che naturalmente deve rimanere segreta, nel senso che comu- nichiamo i componenti, ma non le quantità. Si tratta di un Vermouth rosso molto tradizionale, per il quale abbiamo seguito in parte la filosofia a di un’interessante coppia di vecchi produttori torinesi novantenni che ci hanno raccontato come, dopo la fine delle guerre mondiali, non ci fossero soldi e non si potessero importare erbe esotiche, così iniziarono a produrre il proprio Vermouth con erbe aromatiche piemontesi sia spontanee che dell’orto”.

E allora confessa, quali sono le “tue” erbe? “Usiamo solo ingredienti naturali e complessivamente sono 13, di cui quattro fresche erbe aromatiche dall’orto, molto mediterranee come alloro, rosmarino, timo e ori- gano, che danno il profumo, poi abbiamo la buccia di pompelmo e la vaniglia in stecche, che dà la dolcezza. Continuiamo con essenze esotiche come zenzero, rabarbaro, cumino e in fine le botaniche tipiche che donano le note amaricanti, prima di tutte l’assenzio, che da il nome alla bevanda poi il Génépi, nome di probabile origine celtica di un’artemisia di montagna, la Glacialis, che cresce oltre i duemila metri d’altitudine su terreni morenici, in ne la radice di genziana e l’aloe”.

E se dovessi descrivere il tuo Vermouth? “Innanzitutto la fortuna è che non ce n’è uno simile sul mercato, essendo assolutamente particolare, al naso sprigiona intriganti note amaricanti rotonde e asciutte, poi in bocca esprime una bella connotazione fresca. Abbiamo iniziato a venderlo da pochi mesi negli States, dove il Vermouth, soprattutto quello rosso, ha un consumo molto importante, infatti ne assorbono l’85% della produzione complessiva e siamo già molto contenti, le prime seimila bottiglie sono praticamente finite”.

Anche la più intransigente tradizione sabauda vuole che il vero Vermouth fosse il cosiddetto “Rosso di Torino”, dal tipico color ambrato, come si beve oggi il vostro “Antica Torino”? “Inizialmente bisogna provarlo in purezza per gustarne tutta la bontà, poi addizionato con acqua si trasforma in un’ottima bevanda dissetante, ma è perfetto anche per i cocktails, spesso lo usano come base, magari con uno spruzzo di soda, pensa che addirittura il 95% del consumo negli Stati Uniti è per la mixologia”.

Anche gastronomicamente funziona? “Può essere usato come ingrediente in cucina per la preparazione di piatti a base di pesce e frutti di mare oppure per insaporire, marinare e sfumare preparazioni a base di carne, come arrosti, spiedini, involtini. Mentre in pasticceria viene frequentemente utilizzato per in- saporire dolci, torte e prodotti da forno. Per esempio i miei vini umbri con le salsicce di fegato secche e saporite di mia produzione non ce la fanno, mentre il nostro Vermouth è perfetto. Ed è molto buono anche come digestivo perché alla ne è un amaro diluito col vino”. Così, da una piccola bottega di Torino, il Vermouth ha avviato una tradizione ormai longeva, da medicina popolare a piacevole aperitivo, proseguendo un fantastico viaggio che da oltre 250 anni accompagna e anticipa l’evoluzione dei costumi, dei gusti e delle mode in Italia e nel mondo.