Barsaglina, Foglia Tonda e Lacrima del Valdarno. Una “nuova agricoltura” nel segno dei vitigni autoctoni toscani

Pubblicato il 27 aprile 2017

La “Società Agricola Nuova Agricoltura” sta portando avanti da oltre tre anni le attività della Mannucci Droandi, viticoltori a Caposelvi (Arezzo) da tre generazioni e che trae origine dalle tradizioni agricole e vitivinicole di due famiglie toscane: i Mannucci, che furono proprietari terrieri in Valdarno almeno dai primi dell’Ottocento e i Droandi, che dal Settecento furono coltivatori in Carmignano e poi fattori, come Lorenzo Droandi – esponente di quell’élite d’agricoltori moderni e preparati che s’ispirava agli insegnamenti di Cosimo Ridolfi e Bettino Ricasoli – che nella seconda metà dell’Ottocento fu “ministro” (amministratore) della Fattoria del Borro in Valdarno, alla quale conferì la sistemazione giunta fin quasi ai nostri giorni.

La “Nuova Agricoltura” gestisce oggi un’azienda estesa per circa 100 ettari e condotta col metodo dell’agricoltura biologica, divisa in due corpi principali, Campolucci nel comune di Montevarchi, che ospita il centro aziendale e Ceppeto nel comune di Gaiole in Chianti. Campolucci – toponimo d’origine latina, “campo del bosco sacro” – è situato sulle pendici orientali dei Monti del Chianti, sottozona dei Colli Aretini a un’altitudine di 250 metri s.l.m. sulla sommità di una collina esposta a sud che guarda l’antico borgo fortificato di Caposelvi, nei pressi di Mercatale Valdarno: un’area ancora non troppo conosciuta, ma di notevole interesse, intensamente vitata e che sta rivelando le sue grandi potenzialità a partire soprattutto dagli ultimi vent’anni, grazie all’impegno dei viticoltori che hanno iniziato a produrre vini di pregio.

Il secondo corpo è il podere Ceppeto, costituito da vigneti e oliveti piantati attorno a una casa colonica di pietra squadrata (edificata nel Settecento sui resti di un antico romitorio) e circondato da folti boschi di querce e castagni. Situato anch’esso sul lato orientale dei Monti del Chianti – comprensorio del Chianti Classico, più precisamente sulla pendice Sud (400 metri s.l.m.) della collina dominata dal castello di Starda nel Comune di Gaiole – è contornato da un ambiente incontaminato di selvaggia bellezza, dove il bosco sembra dominare i pochi coltivi. Lì dimorano dei Sangiovesi autoctoni probabilmente provenienti da selezioni massali della proprietà precedente, che si sono rivelati interessantissimi.

È in quest’affascinante e antica storia che si è innestata, nel secondo decennio degli anni Duemila, la “Società Agricola Nuova Agricoltura”, costituita a metà del 2013 per iniziativa dei soci Maria Grazia Mammuccini, una vita nel mondo dell’agricoltura e già direttore dell’Arsia (agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione nel settore agricolo forestale della Regione Toscana) e Giorgio Valentini – già Sindaco di Montevarchi per due mandati e animatore del famoso “Mercatale”, il mercato coperto degli agricoltori del Valdarno – con l’intento per entrambi sia di continuare una tradizione familiare, che di valorizzare le proprie esperienze istituzionali e professionali nel settore agricolo e più in generale sui temi del cibo e del territorio rurale, mentre per quanto riguarda il terzo socio, il dottor Sandro Pasquinucci – medico versiliese toscano di nascita, ma trapiantato a Venezia – la partecipazione muove principalmente da un interesse culturale e da una gran passione per i vini legati al territorio. Con alla base il lavoro realizzato dalla Mannucci Droandi, la “Nuova Agricoltura” ha deciso di mettere al centro della propria attività sia le produzioni vitivinicole della provincia d’Arezzo che quelle del Chianti Classico, oltre all’interessantissima linea di  vini da vitigni autoctoni in purezza, nel segno del recupero e mantenimento della biodiversità.

Per Maria Grazia Mammuccini, amministratore unico di Nuova Agricoltura “è fondamentale seguire un percorso, che vede nelle produzioni tipiche di qualità, nel legame col territorio, nel fondamentale valore sociale e ambientale dell’agricoltura, nel biologico e nel rapporto diretto col consumatore consapevole il fulcro della propria strategia. Quindi le scelte, fatte in tempi non sospetti dalla Mannucci Droandi – i vini di territorio rispettosi della tradizione, i vini bio e i vini da vitigni autoctoni – non solo si sono rivelate giuste, ma oggi si sposano in pieno cogli obiettivi strategici della nuova società”.

In effetti questo è il frutto di una vera e propria passione per gli antichi vitigni in via d’estinzione che Roberto continua a portare avanti all’interno della nuova organizzazione come responsabile dei vigneti e della cantina: “Fino alla metà del Novecento nelle campagne toscane venivano ancora coltivate centinaia di varietà differenti e le trasformazioni più profonde nel sistema vitivinicolo ebbero luogo negli anni Sessanta con l’affermarsi della viticoltura specializzata. Purtroppo dire che i vecchi impianti promiscui erano policlonali è poco, poiché in ettari interi di vigneto non c’era una vite uguale all’altra, una cosa veramente impressionante, ma questa straordinaria biodiversità, di per sé molto positiva, si dimostrò allo stesso tempo l’aspetto più debole di quella viticoltura: l’eccessiva varietà non dava una qualità stabile e una riconoscibilità, l’unica cosa che contava era il gusto del singolo contadino; la nuova viticoltura specializzata, che prese il posto della vecchia promiscua, gettò le basi per porre rimedio a questi difetti, ma ciò avvenne a spese proprio della biodiversità, col ‘sacrificio’ di tantissime varietà esistenti, a beneficio di poche, che vennero ritenute, anche giustamente, le più adatte, ossia per la Toscana in primis il Sangiovese, il Canaiolo, il Trebbiano, la Malvasia e poche altre…”.

E come avete reagito a tutto questo? “L’impoverimento del patrimonio varietale, oltre a contribuire alla perdita della memoria storica e delle tradizioni culturali del territorio, porta, a mediolungo termine, a gravi rischi d’erosione della variabilità, fattore importante per lo stesso miglioramento genetico. Inoltre, nel caso della vite, non dobbiamo dimenticare l’importanza dei vitigni minori per valorizzare la specificità dei diversi territori o per caratterizzare i vini dal punto di vista organo  lettico. Così, dai primi anni Novanta, abbiamo condotto ricerche sul campo, principalmente in zone marginali, dove si possono ancora trovare forme d’allevamento promiscuo risalenti all’inizio del secolo scorso. In pratica cerchiamo nelle aziende di montagna, nei vecchi vigneti e nei campi abbandonati gli esemplari di quei vitigni di cui s’è persa memoria, anche a causa delle scelte del mercato vitivinicolo, ma che costituiscono il patrimonio ampelografico autoctono della Toscana, in passato assai vasto e importante, come documentato da numerose testimonianze di ampelografi, tecnici e artisti dei secoli scorsi. Gran parte delle cultivar sono state individuate in vecchi impianti in avanzato stato d’obsolescenza e comunque destinati a esser eliminati entro breve tempo, soprattutto a causa dell’età avanzata dei proprietari, della mancanza di ricambio generazionale e, se pensiamo alla realtà vivaistica montevarchina, perfino dell’espansione edilizia del centro urbano. Su questo lavoro di ricerca è da più di vent’anni che è attiva una collaborazione con la Sezione d’Arezzo dell’allora Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Arezzo del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, oggi divenuto C.R.E.A. – Consiglio per la Ricerca in Agricoltura – Unità di Ricerca per la Viticoltura di Arezzo. Sotto la direzione scientifica dell’Istituto è stato realizzato l’impianto di un vigneto sperimentale volto alla ‘Conservazione del germoplasma viticolo della Provincia di Arezzo e della Toscana’ nel quale sono stati impiantati antichi vitigni ‘ritrovati’, considerati a rischio d’estinzione, se non addirittura estinti, non solo con l’obiettivo della conservazione delle risorse genetiche, ma anche del reinserimento nella filiera produttiva delle varietà più interessanti. Il progetto si è concretizzato anche grazie alla disponibilità dei viticoltori, che hanno messo a disposizione, oltre al patrimonio varietale da loro conservato, specifiche conoscenze tecniche e storico-popolari, fornendo un fattivo contributo alla rivisitazione dei vitigni tradizionali e dei loro usi”.

Ma i campi sperimentali poi sono addirittura divenuti due… “Il primo lo impiantammo nel 1994 con 39 varietà provenienti dell’immensa collezione dell’istituto aretino, fra le prime in Italia e la più vasta del Centro-Sud, che, vantando ben 600 diverse varietà o cloni, è un vero e proprio museo all’aria aperta; il secondo è nato nei primi anni Duemila, impostato su circa una dozzina di vitigni tipici locali proprio della nostra zona del Valdarno”.

Ma da alcuni anni finalmente è possibile assaggiare anche qualcosa di vostra produzione… “Nella convinzione che questi vitigni possono dare il loro contributo nell’impostazione della futura viticoltura toscana, a partire dalla vendemmia 2000 sono state effettuate le prime microvinificazioni e verificata la qualità, che offriva indicazioni promettenti. Alcuni sono risultati così interessanti che abbiamo deciso d’imbottigliare piccole partite di Foglia Tonda, Barsaglina e Pugnitello; ne facciamo mille bottiglie per tipo e per anno per offrire la possibilità d’assaggiare dei prodotti pressoché unici in totale purezza, al 100% monovitigno: cosa saranno e cosa diverranno lo scopriremo insieme cogli anni… Comunque la consapevolezza di essere tra i primi a presentarli sul mercato ci dà la sensazione di un dovere compiuto e il piacere di proporre qualcosa che torna alla vita da un passato anche remoto. E nell’etichetta della linea dei vitigni autoctoni ho voluto ricordare mia nonna materna Isabella Mannucci Carafa, nata a Firenze nel 1887, ma discendente da una antica famiglia napoletana, qui ritratta dal pittore fiorentino Stefano Ussi all’età di circa 16 anni, opera a suo tempo

donata dalla mia famiglia alla Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti”.

Maria Grazia, siamo convinti che i vitigni autoctoni non devo rimanere dei relitti di archeo-viticultura ma devono inziare a creare anche reddito, così iniziamo col parlare del vostro Foglia Tonda… “Lo consideriamo il nostro figlio prediletto, si tratta di un vecchio vitigno del Chianti dalle ottime caratteristiche, tanto che è inserito in vari programmi sperimentali: col grappolo e l’acino simili al Sangiovese, l’unica problematica che presenta è l’esagerata produttività, così per raggiungere un certo livello qualitativo va un po’ diradato. Anche se non si hanno elementi certi sull’origine, Di Rovasenda (1877) dice di averlo trovato nei vigneti del Barone Ricasoli presso il Castello di Brolio a Gaiole. Più tardi Breviglieri e Casini (1964) hanno descritto un Foglia Tonda rinvenuto sempre nel Chianti, nella zona di Arceno. Scarsamente diffuso, è da qualche anno in corso di reintroduzione grazie ai positivi risultati sperimentali recentemente ottenuti. E’ un vitigno di sicuro interesse, in grado di fornire produzioni d’elevato pregio, dando un vino robusto, di color rubino, gradevole profumo: sintetizzando possiamo dire che è un Sangiovese potenziato con grandi tannini e robusta acidità, perciò molto adatto all’invecchiamento”.

Ma pare che anche il Pugnitello sia un vino longevo… “Dall’origine sconosciuta, si sta diffondendo grazie alle ottime caratteristiche qualitative, anche se di difficile gestione agronomica e davvero scarsamente produttivo. Si può solo supporre che il nome derivi dalla forma del grappolo, che è piccolo e appunto ricorda una piccola mano chiusa a pugno. Vitigno di buona vigoria, dai grappoli piccoli e gli acini dalla buccia piuttosto spessa e coriacea, presenta una buona resistenza alle più comuni malattie parassitarie. Produce un vino di color rosso molto intenso con tonalità violacee, morbido, equilibrato e ben strutturato, con tannini morbidi e note di ciliegie mature. Il Pugnitello presenta qualità enologiche senza dubbio interessanti sia per la produzione in purezza che in uvaggio per conferire particolari caratteristiche adatte all’invecchiamento”.

Mentre sembra che la Barsaglina sia un vino da bere più giovane… “Vitigno originario della costa settentrionale della Toscana, a tutt’oggi è ancora presente, ma poco diffuso, nella Provincia di Massa Carrara. In  teressante per le ottime potenzialità fenoliche, è abbastanza equilibrato e caratterizzato da elevata vigoria, bassa fertilità delle gemme, produzione costante, l’unico problema è il fogliame, talvolta eccessivamente lussureggiante; i grappoli appaiono meno compatti rispetto al Sangiovese e la maturazione è abbastanza precoce, precedendo il Sangiovese mediamente di 7-10 giorni. Particolarmente elevati appaiono i valori degli antociani e dei polifenoli totali. Il vino che se ne ricava è caratterizzato da una spiccata personalità e non somiglia a nessun altro, è davvero qualcosa di diverso e originale, a noi piace molto sia al naso che in bocca. Produce un vino robusto e fruttato, di gran bevibilità, dal color rubino intenso; all’olfatto è fresco con sentori vegetali, il gusto è pieno, intenso, talvolta tannico. Lo riteniamo molto interessante anche da utilizzare in uvaggio, a esempio col Sangiovese, per la sua intensità colorante e la sensazione di freschezza che apporta”. Ma sono in arrivo anche altri due vini da vitigni valdarnesi… “In un paio d’anni usciranno l’Orpicchio e la Lacrima del Vardarno. Il primo, a particolare rischio d’erosione genetica, è un vitigno a bacca bianca coltivato nella zona di Mercatale Valdarno e noto fin dalla prima metà dell’Ottocento. Pur essendo caratterizzato da una difficoltà di coltivazione che definirei esagerata, si è dimostrato interessante per le misure ridotte del grappolo e le promettenti caratteristiche enologiche, certamente un bianco toscano diverso. La Lacrima del Valdarno, varietà miglioratrice un tempo diffusa e poi quasi sparita e salvata solo grazie alla passione di un vecchio vivaista di Montevarchi, è un vitigno molto tardivo, di media vigoria e di media capacità produttiva, ha un’ottima tolleranza ai marciumi e presenta un grappolo piramidale regolare, tendente al compatto e molto pruinoso, con mosto ricco d’acidità. Ha mostrato negli anni d’osservazione un elevato tenore in sostanze coloranti e, avendo una struttura esorbitante, era detto ‘curatore’ del Sangiovese”.

Che ruolo potranno avere questi vitigni nel futuro? “Li considero uno strumento importante soprattutto per le aziende agricole di piccole e medie dimensioni, un modo di rafforzare il proprio legame col territorio, svolgendo anche una funzione identitaria per la comunità locale. Tra l’altro, potranno essere interessanti per la loro resistenza alle malattie, soprattutto in quest’epoca di cambiamenti climatici e, allo stesso tempo, offrono la possibilità di un’esperienza gustativa diversa, aspetto fondamentale in questi tempi d’esasperante omologazione globale anche del gusto. I piccoli produttori toscani si salveranno solo se riusciranno a esprimere l’essenza distintiva dei terroir, lavorando come ‘agricoltori custodi’ in modo più naturale possibile, sia presentando i vitigni autoctoni in purezza, che in uvaggio col Sangiovese, per riportare il Chianti a esprimere una propria identità territoriale, di cui si sente sempre più il bisogno”.

Di Andrea Cappelli

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4 commenti a “Barsaglina, Foglia Tonda e Lacrima del Valdarno. Una “nuova agricoltura” nel segno dei vitigni autoctoni toscani”


  1. [...] La nuova agricoltura dei vitigni autoctoni toscani (Oinos, Vivere di Vino); [...]

  2. [...] Una nuova viticoltura all’insegna dei vitigni autoctoni toscani (Oinos, Vivere di Vino); [...]